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Eravamo
piccoli monelli,
bruni di sole e
rosi di salino,
gli unici
allora, con
pochi grandi, a
fare i pinguini
sulle rocce
pittoresche
della grotta di
Byron (vulgo
Arpaia), oggi
altrimenti
popolata dalle
gaie colonie di
bagnanti, ed
all’approssimarsi
della festa
della Madonna
Bianca un bravo
curatino asceta
ed ossuto, per
vocazione
educatore di
giovani - poi
falciato
inesorabilmente,
in piena
indigenza, dalla
febbre spagnola
- si affrettava
a spiegarci il
miracolo della
stinta immagine
venuta
dall’Oriente nel
cavo del sempre
visibile
tronco
del Libano, e
poi colorata da
mano invisibile,
sotto gli occhi
attoniti del
beato Lucciardo
che l’aveva
presentata e
pregata
ardentemente
durante il
flagello della
peste. Ce lo
spiegava, con le
considerazioni
del caso, un po’
a modo suo; ma,
con gli anni
della vita
errabonda
(com’era una
volta nelle
consuetudini dei
portoveneresi
già
ricercatissimi «
marinai da vele
quadre » o
laboriosi coloni
d’oltre Oceano)
della lezione
del «prevetto»,
come lo
chiamavano in
paese per
antonomasia, ben
poco era rimasto
in noi.
Ventura grande, quindi, quella di aver
potuto assistere
a quelle
celebrazioni,
cosi degnamente
preparate,
dell’11.o
Cinquantenario
della Taumaturga
Immagine, e
rivivere,
attraverso
l’ispirata
parola del
Metropolita di
Genova, S.E.
Mons. Giuseppe
Siri, il
suggestivo
mistero
maturatosi il 17
agosto del
lontano 1399,
apprendendone
sfumature e
significati,
ancora di piena
attualità, che
solo pochi
eletti, del
numeroso
uditorio
convenuto in San
Lorenzo dovevano
aver
approfonditi.
Buona parte di quei fedeli, reduci dalla
poetica
processione
all’alba, che si
compie
regolarmente
ogni anno sulle
vie alte del
borgo, a
ripetizione del
solenne
accompagnamento
dell’immagine in
chiesa dopo il
miracolo di 550
anni or sono,
avevano accolto
l’Arcivescovo
presso la porta
medioevale del
paese che si
fregia tuttora
dell’ambita
insegna su cui è
scolpita a
funzione
secolare di
Porto Venere: «
Colonia
Januensis 1113
». Davanti a
questa piccola
Porta Soprana,
aprentesi fra
mura turrite
perfettamente
conservate, per
dar adito al
caratteristico « carroggio »
genovese, e nel
seguito della
visita pei «
carroggi » alti,
fino alla
chiesetta
romanica di San
Pietro, gioiello
incomparabile
incastonato fra
le rocce,
si ha quasi
l’impressione
che il tempo si
sia fermato ad
altra epoca, e
tale dev’essersi
destata
nell’animo di
Monsignor Siri
che vi accedeva
per la prima
volta,
accompagnato dai
Vescovi di
Chiavari e della
Spezia e da una
folla devota e
plaudente.
L’indimenticabile giornata si è chiusa con
la grande
processione al
tramonto.
Mai Porto Venere si era vista onorata
dall’intervento
a tale cerimonia
dei tre maggiori
Vescovi della
Liguria.
L’ambiente,
squisitamente
d’acqua salsa,
attraverso il
quale si
svolgeva la
processione, lo
sfondo delle
case arrembate a
reciproca difesa
e degli spalti
ligustici
incendiati dalle
luminarie, i
canti dei fedeli
salmodianti al
ritmo di una
banda popolare,
davano
all’insieme il
carattere delle
grandi cerimonie
di
ringraziamento
di epoche
lontane svolte
in onore dei Re
e dei Papi che
furono di
passaggio ed
ospiti, anche
per lungo tempo,
in questo
baluardo
marittimo; o di
ammiragli
vittoriosi che
avevano
sbaragliato
infedeli o
competitori al
fatidico grido «
Viva San
Zorzo ». E
Porto Venere ha
avuto anch’essa
i suoi ammiragli
vittoriosi e non
si contano i
suoi trionfi sul
mare! Per tutti
basta ricordare
Beppino
Graffigna detto
« il Cardinalino
» più volte
citato dagli
storici della
Repubblica, che
dorme i suoi
sonni eterni
sotto le ogive
di San Lorenzo,
dove una breve
epigrafe lo
ricorda; e la
grande vittoria
dei
portoveneresi
contro la
temibile
coalizione
navale promossa
da Federico II «
che salvò Genova
»
dall’annientamento,
proprio nel
corso del 1242
in cui il
venturoso
tronco, con le
reliquie
sfuggito agli
iconoclasti,
veniva a
straccare sulle
sue spiagge: lo
attesta una
lapide murata
all’entrata del
borgo dal
podestà del
tempo Pietro di
Negro.
Non era previsto un panegirico al termine
della grande
processione, ma
l’Arcivescovo,
visibilmente
commosso, ha
sentito
ugualmente il
bisogno di
rivolgere brevi,
ma incisive
parole di saluto
alla popolazione
convenuta, già a
notte fatta,
sotto le nere
arcate di San
Lorenzo,
sfavillante di
luci. Parole
semplici, quasi
marinaresche,
com’è nello
stile del
Presule: per
certo i fedeli
portoveneresi
che le hanno
ascoltate, pur
di loro natura
poco espansivi,
ma giustamente
comprensivi, le
conserveranno a
lungo nel cuore.
Con ciò si è chiusa degnamente la
celebrazione
religiosa, per
dar adito alle
festività
civili, delle
quali hanno
parlato
ampiamente le
cronache.
Intimamente connesse, le une e le altre, ad
un unico fine,
quello di
onorare la
Grande
Protettrice del
luogo, esse
hanno risposto
assai bene al
desiderio
plausibile di
valorizzare
Porto Venere
anche dal punto
di vista
turistico, e dal
complesso delle
manifestazioni
molte deduzioni
si potrebbero
trarre, prima
quella che non è
punto da
augurarsi che
sia fatta di
questo gioiello
arcaico del Mar
Ligure una
stazione alla
moda, come tante
altre; e, per
contro, ogni
sforzo sia
diretto a
conservare
intatto quanto
possibile, il
suo carattere di
vestigia genuina
di un mondo
scomparso – che
pur aveva i suoi
pregi - e di
meta desiderata
di quanti
posseggono
ancora il gusto
del paesaggio
marino,
semplice,
fresco, genuino,
aperto sulla
maestà
dell’infinito.
Così rimanga Porto Venere: restaurata,
ripulita e
ricostruita
anche nella
parte alta con
intelligenza e
buon gusto; nel
suo pretto
carattere
genovese; perché
là dove sono
torri e castelli
e mura smerlate
in riva al mare,
là è ancora
Genova, col
ricordo delle
sue virtù
marinare, della
potenza dei suoi
traffici.
Ne saranno avvantaggiati i turisti e ancor
più gli abitanti
che vivono
pigiati nella
gran nave di
pietra battente
la gloriosa
bandiera di San
Giorgio.
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